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Varazze, 10.07.2023. Home page
IL NAUFRAGIO DEL BRIGANTINO ITALIA COSTRUITO A VARAZZE
Riscoprire il nostro passato – di Tiziano Franzi
Un veliero costruito a Varazze verso la fine del XIX secolo è stato al centro di una storia a metà fra l’avventura di mare e un racconto romantico. Si tratta del brigantino ITALIA, costruito a Varazze nel 1882, per l’armatore D’Orso di Camogli: era famoso per le sue linee eleganti e la sua solidità. Aveva una portata lorda di 1600 tonnellate e 17 uomini d’equipaggio, oltre metà dei quali erano camoglini e rivieraschi, il restante di Grottammare (Ascoli P.)
“Il brigantino a palo ITALIA, al comando del capitano Rolando Perasso di Chiavari, partì da Greenock (Scozia) il 3.8.1892 con un carico di carbone diretto alle Indie, via Capo di Buona Speranza. Navigò sfruttando gli Alisei e giunse senza problemi nelle acque sub-equatoriali. I marinai aprivano regolarmente i boccaporti di mezzana e trinchetto per arieggiare le stive colme di carbone che era stato, peraltro, imbarcato molto asciutto. La mattina del 28 settembre, con grande sorpresa, il nostromo percepì un debole odore di gas provenire dalla stiva di prua. Dopo tre giorni d’incessanti controlli all’interno delle stive, il segnale ricomparve insieme a qualche nuvoletta di fumo sempre più denso, ma le murate e i gavoni non manifestavano alcun aumento di temperatura. Il comandante fece sarchiare il carico nella stiva sospetta nel tentativo di scoprirne il focolaio per poterlo estinguere. Ma il fuoco era troppo basso, esteso per chiglia e la crescente temperatura impediva ormai qualsiasi avvicinamento.
Il 2 ottobre il brigantino si trovava a 160 miglia a Nord di Tristan e, spinto da un buon vento di grecale, navigava a vele gonfie con la speranza di raggiungere un approdo. Ma la situazione andò via via peggiorando. L’aumento del calore e la presenza diffusa del gas investivano ormai tutta la coperta. Verso le 23.00 ci fu una detonazione a centro nave che provocò l’espulsione delle boccaporte (chiusura superiore delle stive) di maestra e mezzana. La navigazione già critica si trasformò in vera emergenza. Il capitano Perasso radunò l’equipaggio sul ponte e fece imbrogliare (ridurre) le vele di maestra e i velacci. Il cielo era completamente coperto e la navigazione procedeva pertanto stimata. Dalle coffe degli alberi le vedette esploravano le acque circostanti, ma un’insistente foschia limitava la visibilità a meno di un miglio. L’incontro con numerosi banchi di alghe tropicali indicava che Tristan era vicina, e ciò attenuò l’ansia dell’equipaggio.
Ma dov’era? Si stavano avvicinando o allontanando da essa? La speranza aggrappata alle sartie del brigantino era l’unica forza a sostenere quel pugno di marinai pienamente consapevoli d’essere in grave ed imminente pericolo.
La notte fu lunga da passare! Verso le 09.30 dell’indomani, l’esperto capitano Perasso riuscì a compiere una “osservazione astronomica”. Il veliero si trovava 8 leghe (40 Km circa) a est dell’isola ed ebbe molta fortuna! Subito dopo il vento girò aumentando d’intensità. In breve tempo si sollevarono onde alte e creste che spazzavano la coperta con energia viva e fragorosa, mentre continui piovaschi impedivano ancora di scorgere la costa. Qualcuno dell’equipaggio, ormai stremato dalla fatica e dall’insonnia, verso le 15.00 indicò una linea bianca di prua. Erano i frangenti che disegnavano l’impatto delle onde contro un muro di lava schiacciato da un cappello di nubi grigie e tempestose. Era finalmente la costa di Tristan da Cunha, l’àncora di salvezza che, tuttavia, incuteva terrore con le sue rocce a picco battute dal grecale e striate da luccicanti cascate d’acqua.
L’ITALIA veniva da sopravvento, e il suo Comandante calcolò che se naufragio dovesse essere, non poteva compiersi in quel girone infernale, dove tutti avrebbero perso la vita sfracellandosi contro la roccia. Decise allora di aggirare l’isola alla ricerca di un ridosso per spiaggiare, evitando così di colare a picco. Ma c’era il tempo per salvarsi?
Da marinaio di razza quale era, Rolando Perasso evitò i numerosi scogli affioranti e, non potendo gettare l’ancora a causa del calore ormai rovente di tutta la zona prodiera, scelse il punto di sottovento che gli sembrava più idoneo, e lì andò ad incagliare, a 60 metri dalla spiaggia, sul lato meridionale dell’isola. La pioggia, l’oscurità e il vento a raffiche ostacolarono lo sbarco dei naufraghi ormai al limite delle forze. Riuscirono infine ad abbandonare il veliero con le lance di salvataggio, ma quando il vento calò dovettero recuperare provviste e tutto quanto sarebbe stato utile per una sosta lunga e ricca d’incognite. L’isola era ancora abitata? Nessuno di loro lo sapeva con certezza. Passarono la prima notte sotto alcuni pezzi di vele strappate, mangiarono il cibo salvato e pregarono ringraziando la Provvidenza per lo scampato pericolo.
Nella nottata furono circondati da una miriade di pinguini che covavano intorno a loro, ma quell’insolita e calorosa compagnia fu improvvisamente scossa da un forte boato. L’Italia aveva subito un’altra esplosione. L’equipaggio attese l’alba con ansia e poi scivolò guardingo verso il brigantino ormai devastato. Recuperarono ancora attrezzi, legname da ardere, tela e tutto quanto avrebbe potuto prolungare la loro sopravvivenza ai piedi di quella nera montagna che pareva intenzionata a ricacciarli in mare dopo averli salvati. Erano altri tempi!
Ad accogliere i naufraghi furono gli abitanti dell’isola, un variegato gruppo d’individui quasi tutti naufraghi o discendenti di naufraghi di baleniere e cacciatori di foche.
Questa è una storia vecchia oltre un secolo, ma in qualche modo ci appartiene perché un po’ di sangue camoglino è tuttora vivo e vegeto tra quella comunità di 300 persone che occupano l’unico pianoro vivibile ai piedi del vulcano anch’esso, purtroppo, sempre attivo. A grandi linee la storia di quel naufragio ebbe un clamoroso sviluppo che commosse il mondo e ciò avvenne proprio quando sembrava ormai certo il rimpatrio in Inghilterra di tutti i superstiti del brigantino italiano. Per ironia del destino, due camoglini, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto trovarono l’anima gemella e decisero di rimanere per sempre a Edimburgh: l’unico villaggio abitato di Tristan da Cunha, che si trova sul lato Nord, simmetricamente opposto a quello del naufragio. I due marinai si unirono in matrimonio con due giovani isolane, Frances Green e Jane Glass, dalle quali ebbero parecchi figli.
Un terzo marinaio camogliese, il nostromo Agostino Lavarello, pur essendosi innamorato anch’egli di una bella ragazza di nome Mary Green, preferì invece ritornare in Italia, assieme al resto dell’equipaggio. Nel 1930, Agostino scrisse un libro per ricordare il naufragio e lo chiuse con queste parole riferite a Mary: “… io non la so rievocare che bionda e fresca come allora e talvolta l’illusione é così forte che, guardando alle casette occhieggianti al disopra dei dirupi percossi dal mare, presso la millenaria chiesina di San Nicolosio, mi sembra vederla ancora rientrare correndo al suo piccolo nido e volgersi per l’ultima volta con le mani protese nell’estremo addio…”
Oggi, sull’isola di Tristan da Cunha permangono ancora molte “tracce” di quel naufragio: alcuni reperti del brigantino ITALIA raccolti in un piccolo Museo, il Camogli Hospital costruito nel 1971, la strana parlata anglo-levantina, due cognomi tipici di Camogli, e naturalmente il DNA dei discendenti che furono tanti, forse per mancanza di altri svaghi… Queste testimonianze continuano a mantenere vivo il ricordo di quel pugno di marinai liguri incagliati in quello sperduto angolo dell’Oceano Atlantico meridionale. Molti scrittori, giornalisti e inviati speciali d’importanti riviste nazionali ed internazionali hanno ampiamente documentato la vita che trascorre senza tempo sull’isola di Tristan da Cunha che oggi é entrata persino nell’itinerario di lussuose navi da crociera. Ma gli isolani temono le navi perché portano malattie di cui non hanno anticorpi. Ormai é risaputo, il loro isolamento é sinonimo di felicità. Quando nel 1961 il vulcano aprì un cratere e sfiorò il villaggio, il Governo fece rimpatriare gli isolani, ma l’impatto con la modernità delle metropoli inglesi non fece che aumentare il loro stress, ma soprattutto la nostalgia per Tristan. Dopo forse un anno, la lava del vulcano rientrò nelle sue viscere e i “deportati” fecero rientro alla base.” (1*)
Relazione del Comandante Rolando Perasso, di Chiavari, a S.E. il Ministro della Marina, pubblicata sulla Rivista Marittima, giugno 1893.
L’ITALIA era un veliero della portata di 1600 tonnellate di peso lordo, costruito nel 1882 a Varazze, rimarchevole per la sua solidità e per le sue forme maestose ed eleganti. Apparteneva al compartimento marittimo di Spezia. I suoi traffici furono sempre transoceanici, dal Regno Unito o Nord America alle Indie e China. Nell’ultimo suo viaggio aveva caricato, nella Clyde, carboni per Table Bay e, stante le difficoltà dei noleggi, gli armatori ne avevano con 300 e più tonnellate a loro conto completato il carico.
Il 3 agosto 1892 partimmo da Greenock pel Capo di Buona Speranza col bastimento stagno, ben attrezzato e provveduto per un viaggio alle Indie e ritorno. Stante la direzione del vento scendemmo il canale di San Giorgio, ritardando al suo sbocco per venti leggieri contrari.Pervenuti al largo, con venti in generale propizi, raggiungemmo a libeccio di Madera gli alisei da greco, piuttosto deboli, e senza avvenimenti rimarchevoli procedemmo al sud passando all’ovest delle isole di Capo Verde alla distanza di circa 23 leghe. Mettemmo allora un po’ di levante nella corsa, e fra i gradi 10° e 11° nord entrammo nel monsone di libeccio.Il giorno dopo segnalammo nominativo, provenienza e destinazione ad un piroscafo della Società «la Veloce» pregandolo di rapportarci, e continuammo, mure a dritta, per arrivare in 5° nord all’est del 20° di longitudine ovest da Greenwich, tenendo conto della stagione, della forte corrente equatoriale e della direzione sud dei venti regnanti sulle coste d’America.
Vicino all’Equatore, che tagliammo all’est di 25° ovest dopo 38 giorni di navigazione da Greenock, incontrammo diversi velieri diretti al sud e segnalammo colla barca olandese PUCK diretta a Rio Janeiro.
Nessuna cosa che meriti di essere rimarcata successe nel traversare gli alisei di sud-est nell’emisfero sud. Notammo solo che l’acqua, nelle casse di provvista che posano sul fondo della nave, ci pareva meno fresca dei viaggi antecedenti, ma a ciò non demmo grande importanza, stante i forti calori della zona torrida. Il carico mantenevasi fresco, senz’ombra di fumo o sentore di gas. Questo fu in latitudine 10° sud all’incirca.
Procedemmo adunque a piene vele a ponente dell’isola di Trinità, nei cui pressi lasciammo gli alisei; il vento faceva il suo solito giro all’est, nord-est e nord, salvo rare eccezioni. Continuammo il nostro viaggio con animo tranquillo e contando su d’una buona traversata.
Eccetto il boccaporto del centro che aprivamo di tanto in tanto, gli altri due di mezzana e trinchetto rimasero aperti per tutto il viaggio. Il carbone era stato imbarcato asciuttissimo e mai pioggia (che ben poca ve ne fu), lasciammo penetrare nella stiva tenuta sempre fresca ed aereata.
Eravamo adunque penetrati da diversi giorni nella zona dei venti del primo quadrante e procedevamo largo a sinistra, quando la mattina del 28 settembre il nostromo di bordo mi riferì che gli sembrava di vedere uscir fumo quasi impercettibile dal boccaporto di prua.Mi portai immediatamente colà, scesi nella stiva e constatai l’osservazione del nostromo. Una leggerissima nuvola di fumo e un debole odore di gas esisteva infatti in quella parte della stiva. Ordinai immediatamente l’apertura del boccaporto del centro e intanto inviai parte dell’equipaggio nella stiva acciò visitasse minutamente forni, gavoni, sentine, tutto insomma per scoprire da dove perveniva il fumo e se vi fosse qualche lume o altro acceso.
Dopo minuziose ricerche, presenziate da me e dagli ufficiali di bordo, nulla trovammo che facesse sospettare del carico in combustione; la superficie del carbone, le murate, le sentine degli alberi e delle pompe, i forni del bastimento, tutto sembrava fresco ed aereato. Riponemmo a suo posto la pompa da incendio, bugliuoli, e tutto ciò che era già stato tenuto pronto dal mattino. Restarono in coperta le sole persone di guardia e ordinai di lasciare il boccaporto di mezzo completamente aperto per vedere che piega prendevano le cose.
Il domani trovammo la stiva freschissima, il fumo e l’odor di gas erano quasi completamente scomparsi. Noi pertanto con parte dell’equipaggio, compresi gli ufficiali, non si cessava di invigilare attentamente, percorrendo la stiva. Ma il terzo giorno ricomparve il fumo più denso del primo giorno come pure l’odore di gas, e benchè le murate e gavoni si mantenessero freschi, dai puntali del centro, zappando nel carico, si sprigionavano piccole colonne di fumo, il che ci convinse che nel fondo del bastimento il carico era in combustione.
Facemmo più d’un tentativo per scoprirlo e vedere se fosse stato possibile il domarlo, ma il fuoco era troppo al basso, e benché non arrivasse alle murate, in lunghezza certamente occupava tutta la distanza dal boccaporto di maestra a quel di prua, dai 15 ai 20 metri. In quella località il carico si era tanto repentinamente scaldato che anche alla superficie era scottante sì da non potervi tener le mani.
La decisione unanime allora fu di serrare immediatamente le boccaporte e qualunque altro portello che avesse comunicazione colla stiva, decisione immediatamente eseguita, e giacché il vento si manteneva dal primo quadrante, mantenemmo la nostra corsa che ci dirigeva verso l’isola di Tristan de Cunha, la terra più prossima alla posizione in cui ci trovavamo. Durante questo tragitto non potemmo avvistare nessun bastimento per comunicare lo stato nostro. Approntammo le imbarcazioni e tutte quelle provvigioni che credei richieste dal caso, se fossimo stati costretti ad abbandonare la nave in alto mare.
Il giorno 2 ottobre, a mezzodì, eravamo a circa 160 miglia da Tristan: il vento si manteneva al primo quadrante, per cui correvamo a vele piene verso quell’isola. Il calore si faceva ben sentire sul ponte, l’aria stessa era impregnata di gas. L’equipaggio, relativamente tranquillo, prestavasi di buon animo ai lavori e manovre di bordo, quando la notte, verso le 11, si sentì una forte detonazione al centro ed a poppa; le boccaporte di maestra e mezzana erano scoppiate e saltate per aria in frantumi. Tutto l’equipaggio fu radunato sul ponte, s’imbrogliò immediatamente la maestra e le velaccie.
Dai boccaporti aperti non usciva che una grossa colonna di denso fumo ed un gran calore. Si diede mano a porre in mare le imbarcazioni. Il secondo canotto fu subito messo in acqua e rimorchiato di poppa, la gran lancia fu appesa fuori banda, l’uno e l’altra pronti e provvisti dell’occorrente. Si bordarono allora tutte le vele e si proseguì alla volta di Tristan. Ci ponemmo tutti ad inondar la stiva d’acqua tanto dai boccaporti quanto dai molti fori praticati sul ponte, per tentar di tener basso il fuoco, per quanto possibile, ma apparentemente con poco frutto, e seguitammo a gettar acqua sino al mezzodì del giorno successivo.
All’alba di detto giorno parte dell’equipaggio fu mandata in testa degli alberi per vedere se si scorgeva terra e così in tempo raddrizzare la nostra corsa, se necessario. Ma il cielo completamente coperto e il tempo nebbioso ci fece prendere più d’un abbaglio. Di tanto in tanto passavano grossi ammassi di quell’alga gigantesca che annunzia ai naviganti la vicinanza di Tristan, ma l’occhio non poteva penetrare il denso banco di nebbia che si elevava sopra l’orizzonte.
Fortunatamente, verso le 9,30 antimeridiane, potemmo fare un’osservazione astronomica che situava il bastimento otto leghe circa all’est di Tristan.
Il vento intanto aumentò e aumentò anche il mare, principiò a cadere la pioggia, per cui si faceva sempre più difficile il poter scerner terra. L’equipaggio era estenuato dalla fatica e dall’insonnia, quando nel pomeriggio, verso le 3, tutto ad un tratto si avvistarono frangenti da prua sormontati da un cordone nero di terra. Era il mare che frangeva impetuoso sulla costa greco di Tristan. Pochi istanti dopo la pioggia e il fosco tornarono ad occultar tutto. Raddoppiammo di vigilanza, e guidati dai frangenti nuovamente visibili ci accostammo, a poco a poco si diradò la nebbia e potemmo scorgere l’altipiano di Tristan tagliato a picco, da 1500 a 2000 piedi, e che doveva per allora essere la nostra salvezza, il nostro rifugio. In quel momento, col vento a refoli impetuosi e con quel tempo piovoso, quell’alta muraglia perpendicolare di roccie dal color del ferro, dalle cui cime si riversava la pioggia in innumerevoli cascate, incuteva quasi terrore. Accostata l’isola ne contornammo la costa a breve distanza dalla parte di scirocco, allargandoci alquanto dalle roccie a fior d’acqua che sono le sole in tutto il giro dell’isola che si scostino alquanto da terra.
Pervenuti così in una relativa bonaccia di mare, tirammo lungo il bordo il canotto, mettemmo in acqua l’altra lancia, e mentre l’equipaggio era occupato a imbarcarvi quelle poche provviste ed effetti che si trovavano sul ponte, dirigemmo per la spiaggia di grosse pietre, che si trova alla parte sud dell’isola. Fallito a causa del gran calore e denso fumo il tentativo di ancorare, investimmo la nave fuori la detta spiaggia a 60 metri di distanza dalla costa. Stante l’ora tarda, la pioggia ed il vento violenti, l’ondata del largo che rompeva con forza nella spiaggia, e l’equipaggio stremo di forze per lavoro, insonnia e scarso nutrimento, abbandonammo il bastimento e colle lancie sbarcammo a terra non senza difficoltà. Si lavorò sino a notte ben inoltrata per isbarcar provviste, mettere al sicuro le imbarcazioni e formare una piccola tenda addossata alle rupi, per la notte.
Alle 8 pomeridiane ci rifocillammo alla meglio con un po’ di vitto freddo salvato, stando mezzo bagnati e intirizziti, parlando del passato pericolo, ringraziando la Provvidenza di averci tratti in salvo, incerti dell’avvenire perché inconsci se l’isola fosse tuttora abitata.
Eravamo ancora tutti desti per le grida assordanti di miriadi di pinguini che stavano covando attorno a noi, quando verso le ore 9 pomeridiane si udì una forte detonazione, ma stante l’oscurità della notte non potemmo discernere cosa fosse accaduto a bordo. Il giorno appresso una parte dell’equipaggio si recò a bordo, e si trovò il boccaporto di prua andato in pezzi, la casa di prua bruciata, il ponte aperto, la stiva piena d’acqua, il carico sommerso. Le vele imbrogliate furono durante la notte per la violenza del vento parte portate via, parte fatte a brandelli. Si ricuperò ancora qualche provvista rimasta sul ponte.
L’altra metà dell’equipaggio fu per via di terra da me inviata lungo la costa ovest verso il villaggio Edimburgo, posto alla parte N.O. dell’isola, per vedere se questa fosse tuttavia abitata. Nel pomeriggio ritornarono senza aver potuto trovare alcun passaggio praticabile. Riferirono di aver sempre camminato in mezzo a sciami di pinguini covanti, che gridavano per allontanare le rapaci galline di mare (Sea hen), specie di falchi che molestano i pinguini incessantemente e li ammazzano a colpi di becco se trovati soli. Al domani altro tentativo infruttuoso per valicare i contrafforti dell’altipiano. Fu portata soltanto la novella di aver incontrato diversi asini e buoi quasi inselvatichiti. Seppimo poi dai coloni che in quella parte SO dell’isola v’erano circa 30 bovini, moltiplicatisi da un paio sbarcativi dagli abitanti anni addietro.
Vicino al luogo dove eravamo attendati trovammo un fuoco apparentemente spento da poche settimane ed una grande caldaia di ghisa per estrarre olio dagli elefanti di mare, o foche, cacciati dai balenieri e abitanti fin verso la metà del secolo presente, e che ora sono totalmente scomparsi.
Il fuoco ci fu provvisto dal legname gettato alla spiaggia dalla corrente antartica, l’acqua da un piccolo stagno ad un tiro di fucile dall’attendamento.
Il giorno 7 ottobre, calmatosi alquanto il mare e il vento soffiando da est mi imbarcai con 5 marinai nel canotto per raggiungere il villaggio di Edimburgo per via di mare.
Allargatici alquanto da terra per liberarci dall’alga gigantesca che contorna l’isola specialmente dalla parte di ponente, procedetti alla vela verso ovest. Man mano che giravamo l’isola, il vento girava più al sud con groppi.
Vedemmo in distanza l’Inaccessibile e il Nightingale. Fatte circa 9 miglia incontrammo l’estremità del declivio che serve di pascolo agli armenti che vedemmo in gran numero aggirarsi in quel luogo. Avvicinatici, scorgemmo qualche nativo che gesticolava e chiamava i compagni. Procedemmo di là a remi per la piccola baia fronteggiante il villaggio, poi che si era calmato il vento.
Dopo fatte altre 3 miglia il vento da est venne in direzione della costa con mare mosso e spesso; il tutto, unito alla contro corrente che ci ritardò infinitamente il cammino, non ci permise di raggiungere la piccola baia che a gran fatica. Scesi a terra, tirammo il canotto a secco, e montati sul declivio di terreno su cui è formato il villaggio, trovammo tredici cottages, uso scozzese. Queste case, costruite colla tenera pietra dell’isola, hanno il tetto coperto da una specie di stoppia che dalla parte del sole può durare quasi 30 anni. Internamente sono fasciate e mobigliate con avanzi di bastimenti naufragati. La pietra è porosissima, epperciò attira facilmente l’umidità. Presentemente nove case soltanto sono occupate. Fattomi condurre presso il vecchio Pietro Green, che conoscevo solo per fama, gli raccontai i casi nostri dimandandogli ricovero e vitto per me e il mio equipaggio, sino a che un legno di passaggio ci avesse tratti di colà. Il vecchio Green, ora dell’età di 85 anni, ma intelligentissimo, si condolse con me pel nostro infortunio e accolse le nostre domande umanamente, invitandomi a mandare a prendere il rimanente dell’equipaggio prontamente, giacché la grande umidità della costa sud rendeva insalubre il soggiornarvi a lungo.
Causa il tempo poco propizio fu soltanto il giorno 14 ottobre che abbandonammo definitivamente la nave e ci trovammo tutti riuniti al villaggio, con 18 giorni di provviste ricuperate e parte dei nostri effetti, più due imbarcazioni in cattivo stato. Le tende e qualche pezzo d cavo rimasero nella costa dove eravamo naufragati. La popolazione dell’isola è composta di 53 persone in tutto. Son quasi tutti consanguinei, l’elemento bruno è dominante. Pochi uomini, il resto donne e fanciulli.
Il vecchio Pietro Green, olandese di nascita, naufragato 57 anni or sono con una baleniera nella stessa spiaggia sud di Tristan, parla benissimo l’inglese. Il Governo britannico lo considera moralmente capo della piccola colonia, stantechè è lui che inalbera il jack inglese ed i segnali del Codice internazionale se fa d’uopo. A lui fu lasciata in consegna la cassa medicinali ed i registri di stato civile ed è lui che il comandante della nave da guerra britannica, che tocca l’isola tutti gli anni, generalmente a dicembre, si rivolge per informazioni od altro. V’è poi capitan Hagan, già baleniere nord-americano, altra persona cortese ed ospitale, che vi tien pure la sua famiglia. Le altre famiglie rispondono ai nomi di Glass, Cotton, Swain e Rogers. Praticamente si considerano eguali fra di loro. L’equipaggio, pel vitto giornaliero, fu distribuito proporzionatamente per famiglia. Undici alloggiavano in una capanna isolata appartenente alla famiglia Green. Io e il secondo avevamo stanza presso il signor Green, altri tre erano ricoverati da capitan Hagan.
Nei quattro mesi circa che rimanemmo a Tristan potei constatare che i coloni possedevano 500 capi di bovini, 250 fra pecore e montoni, 50 maiali, circa 100 oche, poche galline. Non seminano che patate per motivo della grande quantità di topi che infestano l’isola e che mai riuscirono a sterminare nonostante la grande quantità di arsenico, trappole, cani e gatti inviati loro dal Governo britannico. La maggior parte dei gatti, anzi, si è inselvatichita e vive sull’altipiano. I campi di patate si trovano 4 miglia circa dal villaggio verso il sud. Vi si va per una pessima strada da carri. I carri sono fabbricati rozzamente nell’isola. I campi sono circondati da muri a secco per proteggerli dagli animali. Ognuno può così occupare qualsiasi spazio di terreno, ma se cessa di coltivarlo deve abbatterne i muri e lasciarlo libero al pascolo. Una porzione del raccolto delle patate la scambiano con qualche baleniere passante, e ne hanno in ritorno stoffe, farina, zucchero, thè, caffè, sapone, zolfanelli, ecc. Scambiano pure così buoi, montoni, maiali, oche, galline, burro, uova, latte, ecc. Bene spesso però si trovano a corto di certe cose. Alle volte sono obbligati a fare a meno per mesi e mesi di farina, zucchero, thè, caffè. Per caffè carbonizzano il pane e lo macinano, per thè usano un’erba somigliante alla nostra salvia, che chiamano thè di Tristan, ma che noi trovammo di gusto poco gradevole.
L’acqua è buonissima e abbondante. È su di questa che facevano molto assegnamento le navi che andavano alle Indie, Australia e China con emigranti prima del taglio dell’istmo di Suez, compresi i molti balenieri d’altri tempi.
È una sorgente che nasce ai piedi d’uno dei due burroni perpendicolari che sono alle spalle del villaggio. Vicino ad ogni casa ne passa un piccolo rivo che poi si riunisce agli altri i quali precipitano dal declivio nella spiaggia in due cascate abbondanti. Un piccolo cimitero posto sopra un rialzo tra la spiaggia ed il villaggio è circondato da due corsi d’acqua che lo isolano. Ha un cancello in legno. Due sole lapidi indicano il sito dove riposano il caporale Glass ed il vecchio Cotton, due dei primi coloni di Tristan. Degli abitanti i quali non sorpassarono mai in numero 112, molti emigrarono in epoche diverse al Capo, in Australia, in Nord America. Molti anche servirono sui balenieri.
La pelle dei bovini viene adoperata dagli abitanti per le loro calzature che sono specie di sandali o mocassini. Colla lana dei montoni si confezionano calze e maglie. La stoffa per vestirsi l’hanno in permuta dai legni balenieri, che scemano sempre, o se la fanno spedire dal Capo, dove hanno molte relazioni e parenti, pagandola con lana, burro, piume di albatro e molly, pelli di pinguino, ecc.
Le capre selvatiche dei primi tempi della colonia sono da molto completamente scomparse in modo misterioso. Non v’è caccia di sorta, se si eccettui quella dei gatti selvatici per la loro pelle, e dei piccoli d’un uccello che gli isolani chiamano black eagle (aquila nera), che fanno snidare dai cani sull’altipiano dell’isola. Sono molto più grossi d’un piccione e sono saporitissimi, ma sono molto scarsi.
La legna da ardere è loro fornita da una specie di acero di corto fusto e del diametro medio di 15 centimetri. Brucia senza far fumo anche tagliato di fresco, cresce a mezza distanza fra il declivio che serve di pascolo e la cima dell’altipiano. Le piante, allorchè tagliate, si fanno precipitare giù a basso per burroni quasi perpendicolari e di là, accatastate, si fanno tirar dai buoi al villaggio. Sopra l’altipiano cresce una specie di sedano selvatico, così pure sull’«Inaccessibile», ove serve di pascolo ad un gran numero di maiali selvatici. I coloni vi vanno alla caccia di tanto in tanto e visitano l’isola per vedere se vi fossero naufraghi o foche.
Si trova a Tristan, qua e là, qualche pianta di malva e, nei mesi estivi, uva spina in gran quantità in tutta l’isola. Gli abitanti la chiamano berry e se hanno farina e zucchero ne fanno certa torta che per laggiù è un vero lusso. Il solo vecchio Green lavora da sé e irriga un piccolo orticello ove crescono cavoli, cipolle e zucche che distribuisce gratis ai coloni con gran parsimonia.
Coltiva pure qualche fiore, specialmente campanelle rampicanti a diversi colori. Gli isolani, per abbordare i legni che passano vicino, posseggono una leggera imbarcazione, presentemente tutta sdrucita e che poco curano di riattare e tenere in ordine. Hanno fama di essere un po’ indolenti.
L’equipaggio, nel tempo che fummo nell’isola, si prestò di buona voglia ai lavori giornalieri, mungendo le vacche, tagliando trasportando e spaccando legna; fece nuovi muri a secco; tinse a olio l’interno di tutte le case, con materiali salvati dal nostro legno riattò carri, ne fabbricò dei nuovi, sistemò la strada che conduceva all’estremità dei campi; s’imbarcò sul nostro o sul loro battello per abbordare i bastimenti passanti e chiedere passaggio o aiuto in provviste. Insomma faceva vita comune coi coloni e prestava l’opera sua in ogni cosa.
La pesca è abbondante di fronte al villaggio e nelle vicinanze. Quando lo stato del mare lo permetteva vi si andava col nostro canotto e sempre si faceva buona pesca di aragoste, blù fish, five-fingers e barracouta, polipi e grossi granchi in quantità nelle scogliere. Si ancorava fuori di quell’alga gigantesca e si pescava nei fondi di circa 40 braccia. Costretti dalla necessità i coloni qualche volta fanno il sale nell’isola, ma si lamentano per la fatica che loro costa.
Il clima d’estate è caldo, ma nei mesi d’inverno il freddo è severissimo. Gli armenti vivono sempre all’aperto. L’isola è soggetta a turbini e colpi di vento violentissimi. Il tempo soffre delle variazioni brusche. Dovendo comunicare coll’isola bisogna, se il tempo è favorevole, approfittarne subito. La corrente al largo generalmente va al nord-est. Vicino a terra vi è una contro corrente che fa il giro della costa.
L’isola di Tristan da Cunha è di forma esagonale e gira 26 miglia. Il suo picco arido e nudo, che di novembre mostrava ancora qualche traccia di ghiaccio, s’innalza metri 2700 sul livello del mare e può distinguersi a gran distanza al largo, ma ordinariamente è coperto di nubi. I vertici più salienti dell’area esagonale dell’isola portano i nomi dei più distinti coloni, come Glass, Green, Cotton, Serain e Taylor, uno dei ministri evangelici già residenti, tempo addietro, nell’isola.
Il villaggio di Edimburgo fu così denominato dalla visita che vi fece nel 1867 il principe di questo nome.
Il vecchio Green mi riferì che le visite dei legni mercantili all’isola diventano sempre più rare. Hanno però, come si è detto, la visita annuale in dicembre di un legno da guerra britanico, spedito da Simon’s Bay, il quale tocca prima le possessioni inglesi sulla costa ovest dell’Africa, le isole Ascensione e Sant’Elena. Questa nave fa il servizio postale di Tristan e da gratis il passaggio ai coloni pel Capo se desiderano lasciare l’isola. Lo stesso Green ricorda fra i diversi legni perdutisi nell’isola quattro naufragarono per combustione spontanea del carico di carbone, cioè: il BOGOTA, il BEACON LIGHT, lo SHAKESPEARE, l’ITALIA. I legni che passarono da Tristan da Cunha durante la nostra dimora colà furono i seguenti:
*1°* 1892, 25 ottobre: Barca americana H.G. JOHNSON, cap. Colby, con 59 giorni di navigazione da Nuova York per Adelaide. Ci diede qualche piccola provvista e fu la nave che portò in Australia le prime notizie del nostro disastro le quali furono telegrafate a Londra il 9 dicembre 1892. Offrì il passaggio pel capitano e secondo fino in Australia, ma declinai per non abbandonare l’equipaggio a Tristan;
*2°* 4 novembre: Nave germanica REGULUS, in zavorra da Rio Janeiro a Singapore. Ci fornì d’un sacco di pane e farina;
*3°* 18 novembre: Baleniere americano PLAUTINA, cap. Mackenzie, diretto al S.E. per la pesca. Ci diede diverse provviste. Questo legno e il REGULUS ci rifiutarono il passaggio pel motivo della loro destinazione e perché sapevano attendersi all’isola, in dicembre, un legno da guerra diretto al Capo;
*4°* 3 dicembre: Passa il BARK GERD, di Kragerò, con legname dal Baltico per Porto Natale. Il capitano non vuole assolutamente ricevere alcuna comunicazione dal nostro canotto. Tempo bello, vento leggero da ponente;
*5°* 31 dicembre: Comunica coll’isola, per provviste, la goletta inglese WILD ROSE , cap. Watters, dal Capo per l’isola Diego Alvarez a ritirarvi 14 pescatori di foche da più di un anno colà. Promette al ritorno di darci il passaggio per Cape Town;
*6°* 1893, 3 gennaio: Nave inglese HESPERIDES, da Londra per Melbourne. Ci vende tante provviste per Lst. 7;
*7°* 24 gennaio: Baleniere americano GREYHOUND, cap. Enos in crociera per Sant’Elena. Dispiacente di non poterci imbarcare per motivi relativi alla pesca. Non può scambiar provviste causa il tempo cattivo;
*8°* Stesso giorno: Ritorna la goletta inglese WILD ROSE da Diego Alvarez. Causa il tempo cattivo non possiamo prendervi imbarco che io, il secondo e il nostromo. Calmato il vento imbarchiamo, al 26 gennaio, il resto dell’equipaggio, salvo tre marinai, cioè: Lavarello Gaetano, Repetto Andrea e Marcianesi Nazzareno, i quali preferiscono rimanere nell’isola non ostante le mie ingiunzioni ed esortazioni di rimpatriare.
Al capitano della WILD ROSE domandai semplicemente il passaggio e mi rispose che per quanto dipendeva da lui ci avrebbe condotti gratis e credeva che il suo armatore al Capo avrebbe fatto lo stesso. Udito ciò ci contentammo del vitto stantio e dell’incomodo alloggio sul carico, ed esortai l’equipaggio ad aiutare quei della goletta ai lavori e manovre di bordo. Giunti a Cape Town dopo 21 giorni di traversata l’armatore mandò a quel regio console d’Italia un conto pel nostro passaggio di Lst. 50 che dovette pagare. Detto regio console provvide ai nostri bisogni nei nove giorni che dovemmo stare al Capo per attendere il vapore inglese CONWAY CASTLE che ci doveva condurre a Las Palmas. Si sbarcò al Capo il mozzo Lauriana Vincenzo.Nel tragitto di rimpatrio all’ancoraggio dell’isola Sant’Elena, trovammo la cannoniera inglese RACER, il cui comandante aveva istruzioni per imbarcarci a Tristan da Cunha al suo arrivo colà. Dopo 17 giorni di passaggio dal Capo arrivammo alla Gran Canaria. Attendemmo sette giorni per l’arrivo del vapore della Società «La Veloce» il VITTORIA, che doveva condurci a Genova. Preso imbarco su detto piroscafo, il giorno 26 marzo arrivammo in patria. Anche il regio console d’Italia a Las Palmas ci assistette in ogni emergenza con solerti e premurose cortesie tanto pel nostro vitto e alloggio colà, quanto per le raccomandazioni da lui fatte in nostro favore presso il comandante Profumo del VITTORIA, che fu per noi un compitissimo gentiluomo. – (Rolando Perasso – Capitano di Lungo Corso.)
Tiziano Franzi
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(1*) – Gatti Carlo, https://www.marenostrumrapallo.it/tristan