TRENTA APRILE 1944:
Cronologia di un bombardamento aereo durante la seconda guerra mondiale
Di Luigi Spiota
Il 30 aprile 2024 si compiono ottant’anni dai fatti qui descritti.
Ore 10,30 – Campagna periferica alla città di Alessandria.
(Francesco è il padre di chi scrive).
E’ domenica ed una bella giornata di primavera, finalmente!
Se ne sentiva ormai l’esigenza, dopo tanto freddo e tanto maltempo.
Nelle zone in ombra della campagna, nei ritàni fra le colline, dietro alle costruzioni più alte, sotto ai ponti delle strade l’ultima neve di uno dei più gelidi inverni degli ultimi anni ha resistito a lungo e si è sciolta soltanto da pochi giorni.
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Finalmente oggi il sole è tornato a splendere nel cielo d’un bell’azzurro chiaro, l’aria profuma delle viole spuntate sui declivi dei fossi e dei canali di irrigazione, che portano l’acqua del Tanaro a scorrere verso i prati. I cespugli sono un rigoglio di teneri germogli e fanno a gara con le piante d’alto fusto per vestire di foglie i rami, che fino a qualche giorno fa ne erano spogli e consentivano allo sguardo di attraversarli per passare oltre.
“Quando arriva, la primavera genera sensazioni inesprimibili che pare viaggino sotto alla pelle, che tocchino in positivo le emozioni ed i sentimenti fino a farli diventare a volte esilaranti, quasi volessero stuzzicare germogli anche nelle persone. Peccato che tutta questa effervescenza, questa smaniosa voglia di vivere venga fiaccata da questa orribile guerra…”
Francesco, con questi pensieri in testa e già in divisa da capotreno, pedala in bicicletta lungo la strada di campagna che collega il suo paese, dove da sempre vivono i suoi genitori contadini, alla città di Alessandria dalla cui stazione ferroviaria, alle dodici e quindici, partirà il treno per Nizza – Alba – Bra – Cuneo su cui presterà il suo servizio. E’ una pedalata lunga circa sei chilometri e della durata di poco più di mezz’ora, sia all’andata che al ritorno, che gli tocca ormai quotidianamente sotto qualsiasi condizione atmosferica.
Infatti da poco più di un anno è tornato ad abitare in campagna portando con sé la sua famiglia: la moglie Caterina, la figlia Lucia di dieci anni ed il piccolo Luigino di tre. E’ una fatica che può ancora concedersi a quarantatré anni di età, sperando che non debba durare a lungo.
Sono sfollati dalla città per sfuggire ai bombardamenti aerei degli alleati, che ne martellano sistematicamente tutte le strutture logistiche, strade, ponti, piste d’atterraggio, fabbriche, capannoni industriali, in particolar modo la stazione e le diramazioni ferroviarie che si irraggiano verso le maggiori città del nord: Torino, Milano, Piacenza, Genova, Savona, Cuneo. Sono stati proprio i viaggi di servizio in quelle città, particolarmente Torino, Genova e Milano, che hanno mostrato a Francesco gli effetti devastanti dei bombardamenti aerei, a convincerlo a sfollare verso la campagna, vincendo la resistenza di tutta la famiglia.
Il nodo ferroviario di Alessandria, Francesco lo sa bene, è (e lo è ancora oggi) uno dei più importanti dell’Italia nord occidentale, così come quello di Bologna lo è per quella nord orientale. Insieme coprono tutta la pianura Padana con la ragnatela dei binari che si dipartono dalle due stazioni. E non passa giorno che i bombardieri alleati non facciano sentire il loro rombo nei rispettivi cieli. Anche quando sono soltanto in transito per altri obiettivi, non perdono l’occasione per sganciare qualche bomba su qualunque bersaglio che colpisca la loro attenzione: un concentramento di vagoni o di mezzi di trasporto, una squadra al lavoro per rabberciare un ponte, una locomotiva isolata che innalza il suo pennacchio di fumo verso il cielo.
I più informati in stazione sono gli operatori radio e gli addetti ai convogli a lunga percorrenza. Secondo le loro fonti i bombardieri decollano dagli aeroporti dell’Italia del Sud già liberata dagli alleati, Foggia, Napoli, Catania, Cagliari, con obiettivo ogni tipo di struttura logistica del nord, dove la Wermacht ancora spadroneggia appoggiata dai repubblichini di Salò, loro complici, quasi sempre servi, nell’attuare le peggiori nefandezze a spese della popolazione civile indifesa, massimamente contro le formazioni di partigiani che popolano le montagne, con i quali hanno ingaggiato una guerra feroce, senza quartiere e senza esclusione di colpi.
Anche questo Francesco lo sa bene: due suoi cugini, Ugo e Giulio, fratelli, sono entrati a far parte del distaccamento di una formazione partigiana “Garibaldi.”
Giulio ha fatto questa scelta dopo essere ritornato in condizioni fisiche e psichiche pietose dalla guerra in Russia, dove, alpino della divisione Cuneense, ha combattuto e vissuto una tragica ritirata dal fiume Don, durante la quale ha visto morire di sfinimento quasi tutti i suoi commilitoni.
Alla partenza per il fronte russo nel luglio del 1942, sfilando per le strade di Torino con la fanfara in testa, la divisione contava circa ventiquattromila uomini fra ufficiali e soldati. Meno di un anno dopo soltanto quattromila superstiti sono tornati in condizioni disperate.
Lui, non particolarmente robusto o resistente alla fatica ed al freddo, non sa spiegare come abbia potuto sopravvivere: “Sono qui e basta. Fortuna o miracolo? Nessuno lo sa. Quello che so è che ogni volta che mi addormento, ed è un caso raro, mi ritrovo a trascinare i piedi lungo quella pista nella steppa, a meno trenta gradi senza mangiare e senza dormire, fra la tormenta e tanti cumuli di neve ai lati: sotto ci sono i miei compagni che si sono abbandonati senza più forze, sapendo che quella fresca li avrebbe ricoperti in fretta.”
E’ già passato un anno da quel giorno, ma Francesco ricorda benissimo – non potrà mai dimenticare – quando insieme ad Ugo erano andati in stazione ad attendere l’arrivo di una delle prime tradotte su cui avrebbe potuto rientrare a casa.
Pochissimi i reduci scesi dai vagoni, presi d’assalto dai tanti parenti assiepati sul marciapiede e carichi d’ansia che chiedono, che gridano:
“Robotti Alfredo, alpino del battaglione Fossano, l’avete visto? Sapete dov’è? Per favore! Per favore!” grida accorato un operaio in tuta.
Una donna mostra la fotografia di un militare: “E’ mio figlio, Borelli Ernesto, sottotenente artiglieria alpina, 6°compagnia battaglione Mondovì. L’avete visto? Guardatelo bene!”
Un prete chiede in giro: “Padre Alfonso, il vostro cappellano…. E’ mio fratello, quando l’avete visto l’ultima volta?”
Ma Giulio non si vedeva, nonostante fossero saliti su una panchina per guardare meglio.
Quando ormai stavano per chiedere l’ora in cui sarebbe arrivata la tradotta successiva, Francesco aveva sentito che qualcuno lo tirava per il fondo della giacca, forse per borseggiarlo approfittando della calca. Era scattato indietro, pronto alla difesa. Un alpino sconosciuto e male in arnese, la barba incolta, malfermo sulle gambe, lo guardava con occhi stravolti e pieni di febbre: “Sono io, sono Giulio. Portatemi a casa. Ma non da mia mamma, non voglio che mi veda così”.
Gli unici giorni in cui i bombardieri non si fanno sentire sono quelli in cui le condizioni atmosferiche non sono favorevoli al volo: cielo coperto, forte vento, nebbia o scarsa visibilità.
Ed è proprio questo che preoccupa Francesco, mentre pedala guardando il bel sole ed il bel cielo azzurro con occhi inquieti: “Speriamo bene!”
E’ preoccupato perché, oltre al rischio che correrà sul treno in movimento alla luce del giorno sulla linea – non sarebbe la prima volta che salva la pelle per miracolo scappando dai vagoni in fiamme – sa che in caso di bombardamento a tappeto, come si sente dire che vengano effettuati sui centri industriali di Torino, di Milano e di Genova, la casa dove abitava in città fino ad un anno fa è ubicata poco distante dalla stazione ferroviaria ed un grappolo di bombe potrebbe facilmente sbagliare obbiettivo e….
La sola idea lo fa star male.
La casa, costruita con grandi sacrifici familiari nel 1906, è di proprietà dei suoi suoceri, Luigi e Rosa, che tutt’ora la abitano insieme alla seconda figlia Pierina, ancora nubile ma che ha già pronti i documenti per sposarsi domenica prossima – Erminia, la terza figlia, con la sua famiglia sono sfollati a loro volta in un paese limitrofo – oltre ai pochi inquilini che non hanno voluto sentire ragioni quando è stato loro proposto di sfollare in un posto più sicuro:
“Noi abitiamo qui, questa è casa nostra. Dove potremmo essere più al sicuro? Il Genio Civile ci ha dato istruzioni su come rinforzare le cantine per trasformarle in sicuri rifugi antiaerei. Noi siamo tranquilli. Siatelo anche voi.”
E’ una casa di tre piani, uno al piano terreno rialzato e due in elevazione, con la scala centrale e sei appartamenti laterali, tre per parte. Al terzo piano, sulla destra salendo la scala, c’è l’appartamento che Francesco ha occupato con Caterina quando si sono sposati, dove sono nati Lucia e Luigino e dove tutt’ora sono sistemati i loro mobili di casa. Andandosene hanno lasciato tutto come stava, contando di ritornarci prima possibile. E’ la casa di tutta la famiglia. Attualmente quattro dei sei appartamenti sono occupati da inquilini, ma in futuro saranno tutti a disposizione dei figli e, in un futuro ancora più lontano, da nipoti e discendenti vari.
Questo è il desiderio più volte espresso da Luigi e da Rosa.
Ed è lì che è diretto in bicicletta prima di raggiungere la stazione, perchè, come di consueto, Rosa gli ha preparato il pranzo affinchè possa mangiarlo caldo prima di andare in servizio.
La salita che accede al ponte sul Tanaro lo obbliga a spingere forte sui pedali. Quando arriva in cima vede che a metà del ponte c’è un posto di blocco dei tedeschi. Mette subito mano al documento lasciapassare fornitogli dalla ferrovia:
“Speriamo che non mi facciano perdere troppo tempo.”
Ma quando tocca lui passare, a piedi e con la bicicletta per mano fra i reticolati messi di traverso sulla strada, si accorge che non si tratta del solito controllo dei documenti.
Riverso sulla carreggiata, oltre i reticolati, c’è un giovane partigiano morto rafficato, con la camicia inzuppata del suo sangue, il corpo scomposto sulla strada piena di buche. Dai calzoni di foggia militare spuntano i piedi, quello destro dentro una scarpa troppo larga, il sinistro scalzo, forse la scarpa l’ha persa scappando, la pianta nuda è sporca di terra e ferita in più punti. Appoggiato di lato un cartello:
“Ha osato alzare le armi contro di noi, RSI.”
Tutti coloro che passano devono fermarsi per guardare. Due soldati, un tedesco ed un nero di Salò, mitra in pugno, controllano che tutti sfilino e guardino. Chi non lo fa viene spintonato indietro con la canna del mitra.
Francesco guarda per vedere chi può essere il morto, ma non lo riconosce, forse non è di queste parti, forse lo hanno ucciso chissà dove e trasportato qui per questa sfilata canagliesca.
A giudicare dal viso e dalla barba rada e lunga raggruppata in ciuffi, forse la prima barba, gli si può dare vent’anni, forse meno. I capelli lunghi ed arruffati accentuano l’espressione di terrore mista a stupore fissata negli occhi. Sono capelli nerissimi e riccioluti, proprio come i suoi.
Istintivamente la sua mano sale a ravviarli.
Riconosce invece il milite nero, ed una vampata di calore gli sale agli occhi ed alla testa. E’ del suo paese, è Rico, il figlio del calzolaio, marinaio imbarcato a La Spezia… “Disgraziato! Ma cosa gli ha preso?”
I loro sguardi si incrociano. Anche il nero lo ha riconosciuto, ma dopo un attimo di esitazione ha abbassato gli occhi e chinato un poco la canna del mitra. Passandogli davanti Francesco si ferma un attimo tentando di fissarlo, ma quello non li rialza e gli gira le spalle.
Il tedesco lancia un “Achtung! Raùss!” e lo spinge via con la canna del mitra.
La strada in discesa dal ponte gli risolve il rifiuto delle gambe di pedalare, lascia correre la bicicletta e stringe le manopole del manubrio come se volesse stritolarle.
“Maledetti la guerra e Mussolini che l’ha inventata! Maledetti tudèsch! Rico, boia maledetto anche tu! Alcuni mesi fa, mentre eri in licenza parlavi bene dei partigiani all’osteria del paese, lasciando capire che ci stavi pensando…. E’ così che ci hai pensato?”
Deve frenare perché un carro trainato da un cavallo, più lento nel procedere, gli sbarra la strada mentre sull’altro lato della strada sta arrivando una moto-sidecar della Wehrmacht con la sirena a tutto volume, il militare trasportato ha la mitragliatrice imbracciata, pronto a sparare. Quasi sicuramente va a rinforzare il posto di blocco.
Ma le gambe sono tornate ad obbedirgli, anzi, la rabbia incrementa la spinta e la bicicletta vola.
Passato il quartiere Orti della città, imbocca la circonvallazione e si dirige verso il rione Cristo, dove c’è la casa di Luigi e di Rosa, la casa dove anche lui e la sua famiglia abitano anche se non in questo periodo.
Ore 11,15
Francesco svolta in via De Amicis, una traversa di Corso Acqui, dove ferma la bicicletta.
Scende e, spingendola a mano, percorre i pochi passi fino ad arrivare al numero civico 14. Entra nel cancello di ferro battuto e percorre la strada inghiaiata che attraversa il giardino, salutando con la mano libera Rosa che l’attende seduta su una poltroncina di vimini, davanti alla scala di casa con la porta aperta perché possa beneficiare del sole di primavera.
“Ciao, Francesco. Come stanno i bambini? E Caterina?”
“Ciao, Gina. Stanno tutti bene e ti salutano. Voi, qui, tutto bene?”
“Si, tutto bene, anzi benissimo. In pochi come siamo rimasti abbiamo tutta la casa a nostra disposizione. Giusto Luigi, la Pierina ed io, madama Gigìn con suo nipote Giancarlo che è venuto a pranzare da lei perchè sua mamma deve andare a lavorare, il signor Maggi che è arrivato ieri sera dal suo giro di commercio e che domani ripartirà di nuovo. Tutti gli altri se ne sono andati. Ma ripeto, non ci lamentiamo. Fra un allarme aereo e l’altro siamo tranquilli” e sorride ironicamente.
“Saliamo in casa. Il tuo pranzo è pronto.”
Francesco posteggia la bicicletta nel posto indicato dal cartellino col suo nome, sotto al portichetto attaccato alla casina del bucato (piccola costruzione dove tutte le famiglie abitanti possono andare a lavare la biancheria) che sostiene anche il pergolato di uva lulienga e di uva fragola. Luigi è preciso e vuole che i suoi inquilini si trovino bene a casa sua: tutti i possessori di bicicletta hanno il loro posto contrassegnato dal proprio nome. Insieme a tante altre, “sono piccole attenzioni che distinguono gli amici dai padroni di casa”, sostiene.
La mamma di Giancarlo, Teresina, con la bicicletta già girata verso il cancello, sta giusto salutando il figlio affacciato alla finestra dell’appartamento del piano rialzato dove abita la nonna (madama) Gigìn:
“Ciao Giancarlo, devo andare altrimenti faccio tardi in fabbrica. Mi raccomando, in gita con i tuoi amici non esporti ai pericoli, ormai hai quindici anni ed hai messo giudizio. Già papà è disperso in Russia, mi rimani soltanto tu. Come potrei vivere se capitasse qualche disgrazia anche a te? Ti prego, non farmi stare in pensiero. Ciao, ci vediamo stasera, a casa nostra.”
“Stai tranquilla, mamma. Non mi succederà niente, vedrai. Ci vediamo stasera.”
Salendo la prima rampetta di scale Francesco trova Rosa che si è fermata a far due parole con la nonna di Giancarlo, davanti alla porta di casa aperta attraverso la quale si vede la cucina all’interno:
“Niente mangiare, oggi, Gigìn?” chiede Rosa vedendo il tavolo con il gatto accucciato sopra.
“Oggi faccio festa, Rosa. Approfittando della bella giornata, Giancarlo va con gli amici della parrocchia a fare uno spuntino sui prati vicino al fiume Bormida. Gli ho preparato il cestino con tutto l’occorrente. Passeranno a chiamarlo a mezzogiorno in punto. Ha la bicicletta pronta. Io mangerò qualcosa più tardi, un poco di frutta. Sai, alla mia età meno mangio e meglio è! Oh, buongiorno, Francesco. Tutto bene in campagna?”
“Tutto bene, grazie madama Gigìn. Ma preferivo quando eravamo qui tutti insieme.”
“Beh, speriamo che possiate ritornare presto. Prima o poi dovrà ben finire questo finimondo di guerra.”
“Mah, a giudicare da quello che si vede lungo le strade…. Ma speriamo bene, sì.”
“Buongiorno, signor Francesco” saluta Giancarlo affacciandosi anche lui sulla porta. “Oggi vado anch’io a mangiare in campagna, ha sentito? Sono già pronto, aspetto che passino i miei amici a chiamarmi.”
“Buona gita, allora. Bravi, dove andate non correrete rischi dai bombardieri alleati.”
“Per quella ragione ci andiamo.”
Sul pianerottolo del piano di sopra si imbattono nel signor Maggi, che sta scopando davanti alla porta:
“Mia moglie mi raccomanda sempre di lasciare tutto in ordine quando rientro a casa, anche per pochi giorni” spiega. “Da quando siamo sfollati in Lomellina è diventata ancora più maniaca della pulizia di casa, quasi che Luigi e Rosa potessero rimproverarla di averla temporaneamente lasciata incustodita.”
All’ultimo piano ci sono gli appartamenti di Francesco e dei suoceri, uno di fronte all’altro sul pianerottolo. Luigi, armato di pennello e di scaletta doppia, sta dando una mano di olio di lino alla porta d’ingresso di quello di Francesco.
“Luigi, sei sempre all’opera, vedo.”
“Beh, avevo ancora un po’ di olio di lino e la vostra porta mi pareva che ne avesse bisogno…”
“Raccontala giusta. Cosa non faresti per tenerla bene, questa casa. Il nostro appartamento, poi…”
“Cosa vuoi, è il patrimonio della nostra famiglia, se non la teniamo bene noi….. Ma entra, che il pranzo si fredda.”
Al centro della cucina spaziosa dai muri piastrellati di bianco c’è la tavola apparecchiata soltanto per Francesco.
“Voi mangiate più tardi?” chiede a Rosa che gli sta riempiendo il piatto di minestrone, pescando con il mestolo dentro alla pentola appoggiata sulla stufa a gas.
“Sì, intanto aspettiamo la Pierina, che è andata in parrocchia per accordarsi per domenica prossima. Ti ricordi che si sposa?”
“Certo. Ci saremo anche noi, domenica. Ho già prenotato la carrozza di Dario, il conducente del paese. Caterina sta provandosi il vestito nuovo ed anche Lucia e Luigino saranno ben vestiti, vedrai.”
“Sarà una bella festa, anche perché saremo tutti riuniti” e a Rosa le si inumidiscono gli occhi. “Andremo a pranzo al ristorante Buoi Rossi, lo stesso dove siamo andati quando vi siete sposati voi.”
“Hanno già deciso dove andranno in viaggio di nozze?”
“Eh, vorrebbero andare a Stresa, sul lago Maggiore, ma chissà…Tu sai come funzionano i treni e quanto sia pericoloso viaggiare al giorno d’oggi.”
“Sarebbe meglio che scegliessero di viaggiare durante la notte. Il pericolo c’è sempre, però non quello degli aerei da caccia, che è il peggiore.”
Rosa fa un cenno con la mano come se volesse scacciare un cattivo pensiero. Poi cambia discorso:
“Oggi il macellaio non aveva carne, soltanto salame, e di sotto banco” gli sussurra. “Perciò ti ho preparato un panino fatto col pane bianco” altro sussurro. “Così potrai mangiartelo sul lavoro” e gli porge l’involto da mettere nel borsone di servizio, quello che Francesco chiama “il mio ufficio”. E dato che è pesante ed ingombrante, lo posteggia in casa di Luigi e Rosa per non doverselo portare in spalla in bicicletta tutti i giorni, avanti ed indietro dal paese.
“Guarda, le prime fragole dell’orto, quelle che Luigi coltiva sotto alla serra a vetri. Sono già belle rosse, ma non sono ancora saporite come dovrebbero. Ne vuoi assaggiare qualcuna?”
“Grazie, volentieri. Ma soltanto un assaggio, perché si è fatto tardi e devo andare” così dicendo guarda l’ora sulla cipolla che la ferrovia assegna ai capi treno per ragioni di servizio.
Ore 11, 50
Spallato il borsone sulla schiena a mo’ di zaino, Francesco spinge forte sui pedali. La stazione è vicina ma anche dieci minuti sono pochi e lui sa deve essere presente al treno almeno un quarto d’ora prima della partenza.
La strada che deve percorrere è un ampio semicerchio fra le case, che lo porterà da dietro alla stazione, dove ora si trova, fino davanti all’ingresso centrale, prospiciente ai giardini pubblici. In linea d’aria la casa dei suoi suoceri dista non più di duecento metri dal retro della stazione. “Peccato non poterla percorre in bicicletta…la linea d’aria!” pensa pedalando in fretta.
Quando già intravvede il verde delle piante dei giardini pubblici spuntare in fondo al viale, sente scatenarsi le sirene dell’allarme aereo. Gli sembra che stiano ululando in ogni zona della città, tutte insieme, tanto sono assordanti. Per la prima volta Francesco sente un brivido lungo la schiena.
“Strano” pensa. “Ormai alle sirene ci sono abituato, come tutti in città. Ma chissà perchè questa volta… Forse è perchè so che quasi sicuramente l’obiettivo dei bombardieri sarà la stazione, dove sto dirigendomi pedalando più forte che posso, e quindi …!” Ma qualcosa gli dice che non è quella la ragione, che c’è dell’altro che ancora non si lascia distinguere, quasi una sorta di presentimento, che caccia via dalla mente: “Ma cosa vado a pensare!”
Comunque non ha scelta: dove si trova non ci sono rifugi antiaerei vicini. Frena, scende dalla bicicletta, la corica nell’erba della prima aiuola dei giardini e si butta a capofitto sotto ad una robusta panchina di ferro. Ed aspetta, guardando verso il cielo attraverso i listelli della panchina.
D’istinto guarda l’ora: sono le dodici in punto.
In via De Amicis Giancarlo ha appena salutato la nonna Gigìn e si è mescolato al gruppo degli amici che, in bicicletta, stanno pedalando forte per allontanarsi dalla città prima che le bombe cadano, senza risparmiare gli strilli vacanzieri per la bella gita che li aspetta.
Poche pedalate e Giancarlo sente il manubrio irrigidirsi fino a diventare ingovernabile. Capisce subito che ha forato la gomma della ruota davanti della bicicletta.
“Che scalogna, proprio adesso!” sbotta. Ma si riprende subito. “Niente paura, ragazzi. Approfitterò dell’allarme aereo per riparare la gomma, al riparo del rifugio nella cantina sotto casa. Così, quando suonerà il cessato allarme, potrò subito uscire e raggiungervi. Intanto so dove siete diretti. Ciao ragazzi. Ci vediamo fra poco. Aspettatemi, che così mangiamo tutti insieme.”
Gira la bicicletta e correndo la spinge verso casa, entra nel cancello, percorre la stradina inghiaiata e si infila nella scala che scende in cantina, verso il rifugio, verso la salvezza, con la mano destra che già stacca la borsetta di cuoio appesa sotto alla sella, dove sono contenuti i ferri per riparare la gomma.
In quel preciso istante Francesco, sotto al suo riparo improvvisato, sente in cielo un rombo in avvicinamento, cupo, basso, minaccioso. La schiena si gli riempie di brividi. Alza gli occhi ed attraverso i listelli della panchina li vede brillare nell’alto del cielo azzurro. I capelli che gli si rizzano in testa.
Sono un nugolo, uno stormo compatto, riesce a contarne fino a diciotto, ala contro ala. Dietro a questi un altro identico stormo, ed un altro ancora. “Oh Madonna santa, quanti sono!”
Riflettono la luce del sole di mezzogiorno e brillano come se fossero d’argento. Dietro a ciascuno una scia bianca, come se volessero marcare il loro passaggio.
Il loro incedere è perentorio e puntano dritti verso la stazione.
Vede qualcosa che si stacca da sotto, tanti puntini che cadono verso il basso, sempre più veloci e sempre più vicini. Acutissimi fischi riempiono l’aria.
Si rannicchia sotto alla panchina e si copre la testa con le braccia. E prega, prega come non ha mai pregato.
Ore 12,10
Il settore meridionale della città di Alessandria, caratterizzato al centro dalla stazione ferroviaria con i suoi fasci di binari e con l’ampio scalo merci adiacente, è investito da un fitto tappeto di bombe dirompenti ed incendiarie che erutta fuoco e fiamme come un vulcano, mentre un boato primordiale copre ogni altra espressione.
Quel tappeto copre una fascia di territorio larga quanto un campo d’aviazione, lunga quanto basta per spalmare la distruzione totale ben prima e ben dopo la stazione, mirata al suo centro dai puntatori a bordo dei bombardieri. Tutto ciò che è compreso in quella striscia di fuoco non ha scampo. Anche i giardini pubblici, nella parte più vicina alla stazione, vengono sconvolti, come le prime file di palazzi che vengono dopo di loro sulla traiettoria.
Per Francesco, sotto alla panchina, i minuti passano come fossero ore, mentre il cielo si è fatto buio come sotto ad un temporale e tutto intorno a lui cadono rottami di ogni tipo, piccoli o grandi, leggeri o pesanti che siano. I pezzi più pesanti picchiano sulla panchina con colpi secchi e sordi e rimbalzano via. Una polvere rossastra si abbassa piano piano, densa come la nebbia d’autunno.
Francesco ha perso il conto del tempo da che à la sotto, sempre più coperto da ogni sorta di rottami.
Ma ecco che il rombo degli aerei si ripresenta in cielo, questa volta proveniente dalla sua destra, circa novanta gradi a destra, e di nuovo aumenta con quel crescendo che mette paura. Capisce che si tratta del colpo di grazia mirato per la stazione.
Sono di nuovo sopra a lui, ritornano quei fischi acutissimi.
Un’altra deflagrazione prolungata e terrificante lo sconquassa, altra polvere, altra nebbia, altra pioggia di rottami.
“Basta, basta!” urla come se qualcuno potesse sentirlo. Dagli occhi scendono copiose le lacrime, rigagnoli che corrono nella polvere che copre il viso, mentre i singulti gli interrompono il respiro.
Non resiste più a stare là sotto. Inoltre dentro di lui si è innescata una molla carica di ansietà e di paura che lo spinge ad andare a rendersi conto, a vedere….
Si raddrizza in piedi come può, coperto di polvere, barcolla qualche passo avanti.
E vede.
“Oh, Madonna!” gli scappa dalla bocca che rimane aperta, le labbra tremanti, gli occhi sbarrati.
Attraverso la polvere che sta pian piano depositandosi vede che la stazione non esiste più, salvo spettrali pinnacoli di muri sbrecciati, binari con le rotaie contorte che puntano verso il cielo, pensiline senza più la copertura, carcasse di treni spezzati ed in fiamme.
Una nuvola rossastra ristagna a mezz’aria.
Lo sguardo gira abbacinato verso i giardini pubblici ed i palazzi che li circondano, ma al loro posto c’è soltanto fumo, macerie e terra rivoltata.
Un pensiero gli piomba fra le spalle e la testa: “Oh mamma! La casa!”
Brancola nell’aiuola vicina e trova la bicicletta ricoperta di rottami. La raddrizza, la scrolla per liberarla dalla polvere, salta sulla sella e si butta a pedalare come un forsennato lungo la strada ingombra di ogni sorta di rottami che lo obbligano ad aggirarli, almeno i più grossi.
Pedala da solo lungo la strada deserta.
Soltanto quel gran polverone si muove sinuosamente, pesante, ricoprente.
Il silenzio che adesso grava, dopo tutto quel finimondo, è profondo, desolante. Anche il sole non brilla più come prima, un grigio slavato domina su tutto, forse è la polvere, forse è lo sgomento nel cuore di chi guarda.
In quello squallore mortale suonano le sirene del cessato allarme. Sono molte di meno rispetto a quelle di prima, queste si possono distinguere per tonalità o distanza.
Pian piano qualcuno esce dai rifugi e si affaccia in strada, facce stralunate, fantasmi che si aggirano senza senso, inebetiti.
Francesco arriva senza più fiato in Corso Acqui, da dove via De Amicis si apre trasversalmente. L’occhio vola dritto sull’isolato di case dove c’è anche quella di ……
Perde il controllo della bicicletta e rovina a terra fra i rottami sparsi dappertutto.
Non vuole rialzarsi. Rotolandosi nella polvere piange e grida, batte i pugni in terra, lo terrorizza l’idea di dover alzare gli occhi per guardare di nuovo.
Quando trova la forza alza la testa ed apre gli occhi, riesce anche ad alzarsi in piedi.
E guarda.
Non ha mai perso i sensi in vita sua e questa deve essere la prima volta.
Si ritrova riverso in terra di schiena, la testa gli duole, deve averla battuta cadendo e gli ronza, gli gira come una trottola. Gli occhi stentano a mettere a fuoco ciò che vedono. Ma intorno a lui non c’è nessuno e non c’è niente da vedere.
Riesce a mettersi seduto.
Dove c’era la casa di Luigi e di Rosa ora c’è un cumulo di macerie fumanti. Anche altre case vicine sono scomparse. Al loro posto un vuoto, fumo, macerie.
Il silenzio è rotto soltanto dal crepitio delle fiamme che fuoriescono da un tubo del gas spezzato, che alimenta l’incendio del legname di un tetto sbriciolato.
“Il rifugio! Il rifugio in cantina!” grida, corre avanti a braccia tese, sale sulle macerie ancora fumanti e si butta a scavare freneticamente con le mani, buttando di lato mattoni, calcinacci, travi di legno spezzate, tutto ciò che trova nel posto dove sa che, sotto, c’è la cantina trasformata in rifugio.
“Sono qui sotto! Qui sotto! Aiutatemi a scavare! Sono ancora vivi ma bisogna fare presto, presto! Luigi! Rosa! Pierina! Gigìn! Giancarlo! Maggi! Rispondete! Rispondete, per carità!”
Si guarda intorno disperato in cerca di aiuto, ma è solo, non è mai stato così solo.
Le gambe gli cedono e crolla seduto sulle macerie.
Piange.
Qualcuno lo tocca sulla spalla.
E’ un capo squadra dei vigili del fuoco, con lui ci sono sei uomini armati di badile e di piccone.
“Qui sotto! Qui sotto!” urla Francesco, ricominciando a scavare con le mani.
“Ma…ma tu sei Francesco!” sente dire alle sue spalle.
“Si, sono io” risponde senza guardare. “Aiutatemi, vi prego, aiutatemi, sono ancora vivi, tiriamoli fuori da lì sotto.”
“Girati, Francesco, sono Ernesto.”
“Ernesto! Quale Ernesto? Aiutami a scavare, piuttosto.”
Una mano robusta lo afferra con fermezza al braccio destro e lo obbliga a voltarsi.
“Ah, Ernesto. Sei tu!” biascica riconoscendo l’amico con cui è solito giocare in coppia a bocce al dopolavoro ferroviario, nei giorni di pace.
“Francesco, guardami.”
“Dopo, dopo. Non perdiamo tempo, Ernesto.”
La presa si fa più ferma.
“Fermati, Francesco. Lascia fare a noi. Non è lavoro per te” e non stacca gli occhi dai suoi.
Francesco non vuol capire.
“Come, non è lavoro per me!? Ma cosa dici? Sono i miei parenti!”
“Francesco, perdonami. Questo è mestiere nostro, non tuo.”
“Ma cosa dici! Più siamo a lavorare e più facciamo in fretta a liberarli, no?”
“Meglio di no, Francesco. Cerca di capirmi.”
Il capo squadra si avvicina.
“Ha ragione Ernesto, signor Francesco. Lasci fare a noi. Sarà meglio per tutti…anche per lei.”
“Ma perchè?”
Mentre gli uomini iniziano a scavare, uno di loro si avvicina con una bottiglia piena d’acqua a metà ed un bicchiere.
“Beva un poco. L’aiuterà a calmarsi.”
Ernesto esce dalla buca scavata fra le macerie e si avvia verso Francesco. Ha le braccia ciondoloni e fra un passo e l’altro lo sonda con lo sguardo. Quando gli arriva vicino lo guarda dritto negli occhi e lentamente scrolla la testa.
“Ernesto … “
“Coraggio.”
Francesco barcolla.
“Ma…sono feriti?”
“Nessun ferito” lascia capire Ernesto con un segno della testa.
“Stiamo tirandoli fuori. Fra un po’, se vorrai, li potrai vedere. Allontaniamoci un poco, vieni” e gli passa una mano sulla spalla.
“Vedi, Francesco” gli parla lentamente, con accorta benevolenza. “Sulla casa sono cadute tre bombe, probabilmente tre bombe dirompenti da 250 chili. Guarda, questa è una scheggia di quelle bombe” e gli mostra un pezzo di metallo dai lati slabbrati e taglienti, brillante come se fosse d’argento.
“Perchè è così caldo?” chiede Francesco, soppesandolo inebetito.
Ernesto stenta a rispondergli. “E’ ancora il calore dell’esplosione…” borbotta abbassando gli occhi ma riprendendo subito:
“La prima è esplosa appena ha toccato il tetto, vedi i coppi sparsi in giro dappertutto? La seconda è penetrata nella tromba delle scale ed è esplosa al piano terreno: è quella che ha sbrecciato la casa. La terza ha perforato tutte le solette ed è andata ad esplodere nel pavimento terroso delle cantine, di fianco al rifugio, distruggendolo in parte. La terra sollevata lo ha sepolto completamente.”
Francesco pare trasognato. Ernesto lo scrolla dolcemente.
“Adesso devo andare, Francesco. Perdonami se non mi fermo qui con te, ci sono ancora tante altre case da scavare.”
Affondando i tacchi degli stivali nelle macerie ancora calde Ernesto se ne va, seguito dagli altri uomini.
Un vigile urbano sta di fianco ai sei corpi allineati sulle macerie e coperti da lenzuola candide, sconciate dalla polvere rossa dei mattoni sbriciolati dall’esplosione.
Intorno ad un baule sventrato ce ne sono altre, sparpagliate ma ancora in parte ben ripiegate.
Francesco si avvicina ai corpi.
Vede macchie di un rosso più vivo, più liquido, che traspare dal bianco delle lenzuola che li copre e si allarga sempre di più in grosse chiazze. Si accorge dalle iniziali ricamate a mano che sono le lenzuola del corredo pronto di Pierina.
Il vigile ha un documento in mano, compilato a metà.
“Li vuoi vedere?” chiede sommessamente, si conoscono da anni.
Francesco si avvicina lentamente, barcollando sulle macerie. Col capo fa un breve cenno affermativo.
Entrano tutti e due sotto a quel che resta del rifugio della cantina, che il Genio Civile aveva consigliato di rinforzare con grosse travi di legno e di putrelle di ferro.
Tutto inutile.
Tutti morti soffocati, irriconoscibili, schiacciati dalle macerie della loro casa che premevano sopra di loro.
Passando davanti alla casina del bucato (il piccolo fabbricato dove tutte le famiglie potevano lavare la biancheria), rimasta miracolosamente illesa anche se coperta di macerie, vede la sua immagine riflessa nei rettangoli dei vetri della porta, quei pochi che hanno resistito allo spostamento d’aria dell’esplosione. Si ferma e guarda.
La giacca della divisa è stracciata in più punti, la manica destra scucita in parte sulla spalla, i pantaloni lacerati a mostrare la gamba sinistra dalla coscia in giù, la camicia sbrindellata sul petto, tutti gli indumenti hanno assunto il colore rosso-biancastro della polvere delle macerie. Ma è il suo viso a spaventarlo.
Gli occhi sconvolti, la fronte col sangue che cola dalla ferita in testa che si è procurato cadendo dalla bicicletta.
Cerca in tasca il fazzoletto e tenta di tamponarla separando i capelli intrisi. Ma toccandoli si accorge che gli restano in mano a ciocche, a manciate, e più tocca più peggiora la situazione.
Con gesti lenti, desolati, li toglie quasi tutti, gliene rimangono alcuni miseri ciuffi sul cranio esposto al sole pomeridiano. Annoda i quattro angoli del fazzoletto e se lo calca in testa.
Sotto ad una lastra di granito piovuta chissà da dove e incastrata in bilico sui mattoni, forse era un pianerottolo della scala o il camminatoio di un balcone, vede intatta la piccola carriola eruttata fin lì dall’esplosione dalla cantina–laboratorio, dove Luigi aveva appena finito di costruirla al banco da falegname. Doveva essere il suo regalo per l’onomastico del piccolo Luigino, il prossimo 21 di giugno.
Come un automa scende dal cumulo delle macerie e si avvia a raddrizzare la sua bicicletta. Ma quando è seduto sulla sella con le mani appoggiate sul manubrio si blocca: “Cosa faccio adesso? Dove vado?”
In quel mentre si sentono delle grida di donna. E’ Teresina, ancora con i vestiti da lavoro addosso, qualcuno l’ha avvisata in fabbrica.
Scarmigliata, gli occhi invasati dei pazzi, butta in terra la bicicletta e corre, sale sulle macerie respingendo le braccia dei pochi presenti che vorrebbero aiutarla, confortarla. Con le ciabatte da lavoro ai piedi sgarrona sui calcinacci, sui mattoni sbriciolati ferendosi e cadendo più volte. Mentre corre sussurra il nome del figlio come quando lo deve svegliare al mattino:
“Giancarlo, Giancarlo, su, alzati altrimenti farai tardi a scuola, su, dove sei? Giancarlo, ti prego, vieni fuori, non ti vedo, fatti almeno sentire, ti prego! Giancarlo, Giancarlo!”
Francesco vaga lungo le strade ingombre di macerie senza sapere dove andare, spaventato dall’idea di tornare a casa, al paese:
“Ma cosa dico a Caterina, a Lucia, a Luigino, a mia mamma e a mio papà? Come faccio a spiegare…”
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Una settimana dopo i fatti narrati Francesco vedrà ricrescere i suoi capelli. Ma non appena spuntati si riveleranno tutti bianchi e non più riccioluti.
La piccola carriola di legno sarà uno dei pochissimi giocattoli di Luigino per diversi anni a venire.
Teresina non si riprenderà dal suo stato di profondo disagio psichico.
Farà rimettere a nuovo la bicicletta di Giancarlo, estratta tutta contorta da sotto alle macerie.
La posteggerà nel corridoio del suo appartamento in città, pronta per essere riutilizzata dal figlio “non appena ritornerà a casa dalla gita con i suoi amici”, come ripeterà caparbiamente durante gli anni in cui ancora vivrà a tutti coloro che andranno a farle visita.
Alternerà periodi di desolata sopravvivenza ad altri di completa assenza di senno.
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Caterina, mia mamma, moglie di Francesco, figlia di Luigi e Gina, sorella di Pierina, nel giorno del 30 aprile di ogni anno dopo quello del 1944, cercava di non uscire di casa e ci supplicava di fare altrettanto.
Considerava quella giornata, qualunque fosse stata della settimana, una giornata funesta, pericolosa per lei e per tutti noi.
Inoltre, da quando nel dopo-guerra eravamo riusciti, con grandi sacrifici, un piccolo aiuto da parte dello stato ed il sostegno di tanti amici, a ricostruire la casa distrutta e ad andare ad abitarci, si era sempre rifiutata di scendere nelle nuove cantine, memore di cosa era successo laggiù ai suoi genitori, a sua sorella ed agli altri tre amici inquilini.
Questo fino al suo ultimo giorno di vita avvenuto nel Novembre1998.
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NOTA DELL’AUTORE
La storia è assolutamente vera nelle vicende e nei personaggi descritti, compresi i nomi e le località indicate. Colui che a quel tempo era il piccolo Luigino l’ha scritta motivato dalla necessità di testimoniare tali vicende, affinché non possano essere dimenticate e soprattutto non debbano mai più succedere.
Da una ricerca esperita presso i Vigili del Fuoco di Alessandria parecchi anni dopo i fatti descritti, è risultato che i bombardieri alleati avevano compiuto due passaggi incrociati sulla stazione ferroviaria, allo scopo di collimarla sul puntatore dell’aereo per essere sicuri della completa distruzione o comunque per disabilitarla per lungo tempo.
Per maggior certezza avevano iniziato a sganciare bombe ben prima ed avevano terminato ben dopo l’obiettivo, comprendendo così larga parte dell’abitato e dei giardini pubblici della città. In quell’abitato era compresa anche la casa di Luigi e di Rosa, dove viveva anche la loro seconda figlia Pierina oltre al signor Maggi ed a madama Gigìn, che solo per quel giorno ospitava a pranzo il nipote Giancarlo…
Per lungo tempo la data del 30 aprile 1944 è rimasta nella memoria degli alessandrini di quel tempo come una ferita di fuoco, sottolineata dalle numerose lapidi del cimitero comunale che la riportavano sotto ai nomi delle vittime di quel terribile bombardamento aereo. Il passare degli anni ha fatto sì che quelle lapidi venissero gradatamente rimosse per fare posto ad altre, secondo l’evolversi della vita in tempo di pace. Di pari passo i testimoni diretti di quei fatti vanno scemando ed assottigliandosi sempre di più.
Qualche dubbio nasce sulla possibilità che un racconto scritto sulla carta possa essere più duraturo di una scritta sul marmo, ma vale la pena provarci.
Allegati: 3 fotografie della casa distrutta
Racconto “testimonianza” di Luigi Spiota
(il piccolo Luigino che all’epoca del fatto aveva 3 anni)
Via dei Leoni, 66 – 17019 Varazze (SV) – Cell.: 329 2071077