CDR per termovalorizzatori, più ne bruci e più inquini

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Varazze, 13.03.2009.

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cdr-ecoballe-ammassate-in-attesa-di-essere-avviate-alla-combustione.jpgCDR per termovalorizzatori,
più ne bruci e più inquini

Bruciare i rifiuti anziché riciclarli, recuperando quanto possibile e smaltendo correttamente il poco residuo, significa inquinare l’ambiente. I moderni termovalorizzatori, sicuramente meno inquinanti dei superati inceneritori,  per un elementare calcolo di costi e ricavi (Compreso i contributi statali), devono trattare (Bruciare) grandi quantità di materiali post consumo denominato “CDR”.

Il Combustibile Derivato dai Rifiuti è un combustibile solido e secco, ottenuto triturando i rifiuti urbani, raccolto nelle cosiddette ecoballe. Esistono capitolati per quanto riguarda il tipo di materiali che possono essere utilizzati per ottenere il CDR; peccato che non sempre, e non in tutti gli impianti di produzione siano rispettati, facilitati in questo da una cronica carenza di controlli e possibili connivenze.

Se i termovalorizzatori alimentati con il CDR prodotto nel rispetto delle normative inquinano l’ambiente circostante, e per un ampia area, come dimostrato da studi scientifici indipendenti, quanto può succedere invece se viene immesso nelle camere di combustione materiale tossico e nocivo, è veramente molto preoccupante per la disastrosa ricaduta sulla salute dei cittadini e dei bambini in particolare.

Situazioni che si sono verificate in passato, si verificano oggi e molto probabilmente continueranno a verificarsi in futuro, a meno che non venga lanciata una seria e capillare campagna di sensibilizzazione, indirizzata a tutti, nessuno escluso, compreso Enti ed Organismi preposti a verifiche e controlli.

Per continuare l’impegno di acquisizione delle informazioni utili ad approfondire la nostra conoscenza sul tema in discussione, riportiamo una riflessione sulla corretta gestione dei rifiuti, tratto da “Il Corriere di Zeudidi” – Come ammalarsi bruciando i rifiuti – di Katone

L’emergenza rifiuti di Napoli ha imposto ancora una volta un’attenta riflessione sul problema dello smaltimento dei rifiuti. Vista la mancanza di abbondanti fonti di energia in Italia, si è pensato di cogliere due piccioni con una fava. Infatti politici ed imprenditori sostengono che l’unica soluzione che risolva contemporaneamente la questione dei rifiuti e quella energetica sia la costruzione di termovalorrizatori. Il suono della parola allude a un qualcosa di buono, positivo, utile, ma non è così.

Questi non sono altro che i vecchi inceneritori adattati per catturare il calore sprigionato dalla combustione dei rifiuti e per distribuirlo poi alle abitazioni sotto forma di teleriscaldamento. L’idea sembra allettante, ma bisogna considerare che per riscaldare adeguatamente le abitazioni, i termovalorizzatori devono trovarsi in prossimità delle città o, meglio, al loro interno. Esempi ce sono in tutto il mondo: a Barcellona e a Vienna ne hanno costruito uno proprio nel centro cittadino.

A Brescia, dove è stato costruito quello più grande d’Europa, si trova dentro la città. Effettivamente le case ricevono calore dalla combustione dei rifiuti, ma si sottace il lato negativo di questa tecnologia: le ceneri e le polveri sottili se inalate provocano malattie. Numerosi studi epidemiologici dimostrano un aumento di tumori e malattie nervose nelle aree dove sono maggiormente diffusi gli inceneritori. Questo è un dato di fatto e sorprende che un oncologo come il dott. Veronesi affermi che non ci siano prove a riguardo.

Credere che per smaltire i rifiuti sia sufficiente bruciarli, oltre a non essere vero è anche paradossale perché in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Innanzitutto i rifiuti per bruciare hanno bisogno di certe sostanze che aiutano la combustione, altrimenti il fuoco non si sviluppa. Si tratta per la maggior parte di calce, bicarbonato, acqua e ammoniaca che vengono aggiunti in grandi quantità. E qui incontriamo il primo paradosso. Se si vuole eliminare una tonnellata di rifiuti, se ne deve aggiungere un’altra di queste sostanze col risultato di aver raddoppiato la massa finale dei rifiuti.

Infatti i rifiuti una volta bruciati non spariscono nel nulla solo perché non li vediamo più, ma si trasformano in ceneri e polveri. Ora non bisogna farsi fuorviare dai termini familiari: nei termovalorizzatori non si brucia legname, ma materiali industriali inquinanti. Le ceneri prodotte sono pesanti e vanno smaltite in apposite e quindi costose discariche. Questo è il secondo paradosso: con l’avvento dei termovalorizzatori le discariche non spariscono. Anzi. Da immensi immondezzai diventano ricettacoli di rifiuti tossici molto più nocivi dei rifiuti originali.

Queste ceneri sono definite inerti perché caratterizzata da una bassa reattività chimica, ma non altrettanto biologica. Ciò implica che se entrano nel ciclo alimentare, l’organismo non avrà possibilità di difendersi e si ammalerà. La probabilità è abbastanza alta, se si considera che già oggi i campi coltivati in Campania sono fortemente inquinati dalla diossina sprigionata dai rifiuti chimici delle industrie del nord sepolti sotto di essi dalla camorra (vedi “Gomorra”).

Le polveri si suddividono in due tipi: filtrabili e condensabili. Le polveri filtrabili sono facilmente intercettabili con un filtro. E qui si trova il terzo paradosso: le polveri filtrate infatti non vengono smaltite, ma sono reimmesse nel processo di combustione. Quindi permangono nel ciclo e col tempo tendono ad aumentare con la conseguenza di accumulare per le generazioni future altri rifiuti tossici. Purtroppo non esistono filtri in grado di intrappolare tutte le polveri, ma solo quelle di un certo diametro. Quelle con un diametro inferiore, e sono la maggior parte, sfuggono e si disperdono nell’aria. Queste sono dette nanoparticelle e sono pericolose perché se inalate passano dai polmoni al sangue in un minuto e dal sangue in ogni organo in 60 minuti.

Le patologie che possono causare sono gravi: cancro, malformazioni fetali, Parkinson, Alzheimer, intossicazione, infertilità, infarto e ictus. Le polveri condensabili invece si formano al di sotto del filtro e quindi, per gravità, restano all’interno del termovalorizzatore. In realtà c’è un terzo tipo di polveri, dette secondarie, che derivano dalla condensazione dei gas rilasciati nell’atmosfera. Queste si formano anche a grande distanza dal luogo di origine e la loro ricaduta provoca effetti patologici.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, il finanziamento della costruzione dei termovalorizzatori è pubblico ma non statale. I fondi finanziari sono raccolti tramite il CIP-6, una voce presente in ogni bolletta ENEL che destina, secondo la legge n. 9 del 1991, il 7% della tariffa da pagare allo sviluppo delle «energie rinnovabili e assimilate». Quest’ultimo aggettivo, apparentemente innocuo, in realtà è un mostro giuridico che nasconde in sé raffinerie, rigassificatori, centrali a carbone e termovalorizzatori. Queste sono le fonti “assimilate” ad acqua, vento e sole. E questo è il quarto paradosso. A conferma di quanto detto, l’ultima finanziaria del governo Prodi aveva eliminato il finanziamento tramite il CIP-6. Il risultato è stato che l’asta per aggiudicare l’appalto dell’inceneritore di Acerra è andata deserta. In pratica gli imprenditori non si azzardano a mettere i propri soldi nella costruzione dei termovalorizzatori e preferiscono che sia lo Stato ad accollarsi i rischi e le spese che si rifà sulle bollette degli utenti.

In Italia sono 51 i termovalorizzatori. La maggior parte è dislocata a nord, dove il problema dei rifiuti non è presente, mentre la Campania ne è priva e le conseguenze sono a tutti note. Anche il Lazio rischia il collasso e per questo sono stati proposti 4 termovalorizzatori, ma la popolazione si oppone. Se si sovrappone una mappa dell’incidenza dei tumori nella popolazione sopra una mappa che indica la presenza dei termovalorizzatori si scopre al nord i casi di tumore sono molto di più che al sud, dove gli unici picchi si trovano vicino alle discariche delle ecomafie e alle raffinerie di Gela.

Il problema che nessuno pone è che i termovalorizzatori non possono bruciare tutto e in modo indifferenziato, ma solo certi tipi di rifiuti appositamente trattati. Per fare ciò però bisogna procedere alla raccolta differenziata. Questo è già da tempo una realtà in Germania, paese particolarmente attento alla natura. In questo modo Berlino ha ridotto i rifiuti del 50% in 6 mesi mentre Francoforte del 70% inviando a tutti i cittadini un opuscolo pratico e intelligente che spiega come differenziare i rifiuti senza commettere errori. Questi obiettivi sono incredibili eppure alcuni sono stati già raggiunti grazie all’informazione delle istituzioni e alla partecipazione dei cittadini, due cose estranee alle tradizioni italiane.

I rifiuti, divisi in base al materiale, vengono separati in due grandi gruppi: quelli per il CdR (combustibile da rifiuti) e quelle per il riciclaggio. Il CdR è il combustibile dei termovalorizzatori ed è diventato tristemente famoso col disastro delle ecoballe, nome quanto mai adeguato per la sua ironica ambiguità. Dalla loro combustione si produce calore, ceneri e polveri. Il riciclaggio permette un ritorno economico non indifferente: il vetro, la plastica e i metalli possono essere riutilizzati praticamente all’infinito; la carta riciclata vale di più dell’energia che se ne può ricavare bruciandola; gli avanzi del cibo possono essere compostati e utilizzati come concime.

Raccolta differenziata e riciclaggio, se opportunamente impiegati, possono addirittura eliminare la necessità dei termovalorizzatori con un conseguente risparmio economico e un consistente incentivo per le aziende operanti nel settore dei rifiuti. Questo è il caso di San Francisco che punta entro il 2012 ad azzerare la produzione di rifiuti (Zero Waste): già nella prima fase sono stati creati quasi 800 posti di lavoro e l’acquisto di materie prime è crollato. Purtroppo la legge italiana permette solo monopoli privati a capitale pubblico, mentre una reale liberalizzazione porterebbe concorrenza tra le aziende e quindi meno inquinamento e maggiore occupazione.

In ultima analisi i termovalorizzatori sono costosi, nocivi, inefficienti: non risolvono il problema dei rifiuti, la loro costruzione ricade sulle tasche dei cittadini e favoriscono l’insorgere di gravi patologie. Per farli funzionare bisogna ricorre alla raccolta differenziata, ma questa da sola potrebbe addirittura renderli inutili. Un modo per rendersi conto della situazione è usare i termini appropriati: non chiamiamoli ipocritamente termovalorizzatori, ma onestamente “termotumorizzatori”. Solo così i cittadini sapranno valutare le decisioni prese (o imposte?) dai nostri politici per il nostro futuro (o il loro?).

Un grazie di cuore per il lavoro e per l’impegno profuso per questa battaglia al dott. Stefano Montanari direttore scientifico del Laboratorio di Ricerche di Nanodiagnostics di Modena, presieduto e fondato dalla dott.essa Antonella Gatti, scopritrice delle nanopatologie.

Il direttivo.
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Questo articolo è stato pubblicato il 13 Mar 2009 alle 00:15 ed è archiviato nelle categorie - Rifiuti: gestione e trattamento, Ambiente, NEWS DA VARAZZE. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi andare in fondo e lasciare un commento. Attualmente il pinging non è permesso.

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